Chi sa piangere è eroe




É
il 430 a.C.

Atene è colpita da una gravissima pestilenza. Migliaia sono le vittime tra cui Paralo e Santippo, figli di Pericle che, a calde lacrime, piange la loro morte. 

Questa sarà l'ultima volta in cui assisteremo alla manifestazione plateale del pianto da parte di un importante uomo politico; infatti questo gesto divenne oggetto di numerose critiche perché questa manifestazione di dolore fu percepita dai cittadini ateniesi come un gesto poco virile. 

Eppure prima di lui, eroi epici, valori e spietati guerrieri quali Achille, Ulisse, Agamennone non mostrarono né vergogna né ritrosia nell'atto di piangere, come se fosse la naturalissima manifestazione del proprio dolore. Eppure a un certo punto sembra che Platone voglia censurare questo gesto, a dimostrazione del fatto che gli "uomini veri" non debbano mai portare in superficie la propria fragilità e di conseguenza rischiare di apparire poco virili.

Al contrario, nel mondo omerico, l'uomo che aveva la forza di piangere, anche platealmente, era a maggior ragione ritenuto un eroe perché solo chi ha il coraggio di mostrare le proprie fragilità, può diventare imbattibile ed esaltare la propria cifra eroica.


Che cosa succede però nell’Atene del V secolo? Ci sono ancora uomini ritenuti degni di tale eroismo?

La risposta per i contemporanei di Platone era negativa, perciò divenne necessario bandire le lacrime e il pianto: nessuno avrebbe mai più potuto eguagliare l’eroismo di un tempo, proprio perché abbandonarsi al pianto era una forma di conoscenza e di consapevolezza di un passato che non poteva più tornare.

Questo cambiamento irreversibile di prospettiva trova degna rappresentazione nell’arte greca arcaica che ha come elemento caratterizzante proprio quelle sculture come i kouroi e le korai: figure simmetriche, colossali ed equilibrate, figlie dell'arte egizia. 

Figure monolitiche di giovani uomini e donne dai volti serafici e sorrisi nel emblematici e impassibili, divini più che umani. Un ideale di uomo e donna perfetti perché completi, finiti, risolti e per questo molto amati da Platone.

Da questo momento in poi scompare l'uomo omerico: contraddittorio, travagliato, succube dei capricci degli Dei, sofferente ma pienamente consapevole delle proprie emozioni. 

Gli uomini di Omero piangono come espressione della loro ira, del dolore e della malinconia; pensiamo a Odisseo che, sulle rive dell’isola di Calipso, si strugge all’idea di non poter tornare a Itaca, o ad Achille che piange di rabbia per provvedimento di Agamennone di sottrargli Briseide, o ancora Priamo che supplica in lacrime per la restituzione del cadavere del figlio. 

Sparisce con Platone e Aristotele questa cifra caratterizzante dell'uomo omerico che non prova vergogna nel manifestare tutta la sua sofferenza. Sono proprio le lacrime ciò che ci  rende vivi; è nell’acqua, per di più salata, delle nostre lacrime che si cela l’essenza vitale. D’altronde i morti non piangono.

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