Gaspara Stampa: l'onesta cortigiana


L'emancipazione femminile ha viaggiato e viaggia ancora su un binario lento, lentissimo anche fra gli intellettuali più illuminati e lungimiranti. Un caso ante-litteram è rappresentato da Gaspara Stampa, onesta cortigiana, donna colta e intellettualmente indipendente del periodo umanista. Una donna che, per la prima volta, esce dalla dimensione domestica per assumere un ruolo pubblico: quello di gentil donna di corte.

Una figura formata secondo un'ottica prettamente maschile con dei requisiti specifici quali la grazia nelle maniere e nelle parole, nei gesti e nel portamento. Elegante e discreta, la donna di palazzo è relegata a un ruolo di intrattenimento maschile. Eppure, nonostante si trattasse di donne colte, esse non erano mai completamente accettate dalla società, anzi le si guardava sempre con un'aria di sospetto e di diffidenza; infatti mentre le prostitute assolvevano a una funzione utile e socialmente tollerata, le donne di palazzo erano difficili da identificare nel loro ruolo, anche in uno stato di apertura mentale quale la Repubblica di Venezia nel Cinquecento. Tra queste donne emerge appunto Gaspara Stampa poetessa, suonatrice, cantante e soprattutto onesta cortigiana; espressione coniata appositamente per le donne colte ma nubili. Gaspara infatti possedeva un'educazione straordinaria per una donna dell'epoca; il padre Bartolomeo era l'esponente di un decaduto casato patrizio milanese e si guadagnava da vivere commerciando gioielli. Quest'attività garantisce alla famiglia un sostentamento utile per un'istruzione di altissimo livello che comprendeva lo studio delle lingue classiche, la retorica, la grammatica, la musica. La morte del padre, avvenuta nel 1532, quando Gaspara ha solo sette anni, non le impedisce di continuare a studiare. Con la famiglia si trasferisce nella sua città natale della madre: Venezia, dove viene istruita con il fratello Baldassarre e la sorella Cassandra da Fortunio Spira, amico di Pietro Arentino, e da Perissone Cambio. Ben presto il salotto di Casa Stampa diviene uno dei luoghi più frequentanti e vivaci della Venezia del '500, già teatro stimolante di spettacoli, eventi mondani e crocevia di artisti. Gaspara cresce.

È bellissima e molto corteggiata non solo per l'evidente fascino del corpo ma soprattutto per il suo talento di poetessa e suonatrice. Nelle Lettere amorose, Girolamo Parabosco, versatile intellettuale suo contemporaneo, scriverà di lei:

«Chi vide mai tal bellezza in altra parte? Chi tanta grazia? E chi mai sì dolci maniere? E chi mai sì soavi e dolci parole ascoltò? Chi mai sentì più alti concetti? Che dirò io di quell’angelica voce che qualora percuote l’aria de’ suoi divini accenti, fa tale e sì dolce armonia…Potete adunque, bellissima signora Gasparina, esser sicura ch’ogni uomo che vi vede, v’abbia da rimaner perpetuo servitore».

Tuttavia Gaspara sembra essere indifferente agli ammiratori, agli elogi e alle numerose dichiarazioni d'amore, nonostante lei e sua sorella siano rimaste sole, senza nessun uomo di famiglia a preoccuparsi per loro; infatti anche l'amato fratello Baldassarre muore a soli 19 anni nel 1544 e pare che, per le sorelle Stampa, l'unica possibilità socialmente accettabile fosse la monacazione.





Proprio nell'agosto di quell'anno, dal convento milanese di S. Paolo Apostolo arriva una missiva in cui la poetessa viene invitata a diffidare di coloro che vivono secondo i piaceri della carne e a rigettare tutto ciò che la allontana dalla retta via, mettendo in pericolo la sua onestà e reputazione. 

Senza ulteriori giri di parole, il suggerimento è votarsi alla vita conventuale; ma Gaspara non ci sta, continua a frequentare i salotti e la sua fama cresce di giorno in giorno fino all'incontro che cambierà la sua vita. 

Si dice che il giorno di Natale del 1548 la nostra Gasparina abbia incontrato il grande amore della sua vita. Non è un caso che sia stato scelto un giorno sacro per questo incontro fatale. Esattamente come Petrarca che, 221 anni prima, aveva incrociato lo sguardo di Laura nel giorno della Santa Pasqua. Ma chi è quest'uomo per cui la nostra poetessa perde la testa? 

Si tratta del Conte Collaltino di Collalto, un giovane nobile, di bell'aspetto, educato al mestiere delle armi, aristocraticamente colto, incline alle scienze e alle lettere, ben inserito quindi nell'ambiente veneziano. Per questo non è difficile comprendere il perché abbia fatto breccia così facilmente nel cuore della poetessa, così sensibile al richiamo della bellezza, e sia divenuto l'ispiratore di uno dei canzonieri più famosi del nostro Rinascimento.

È lui che muove il mondo poetico di Gaspara; tutto è possibile attraverso le sue lodi, è la spinta per scrivere come non aveva mai fatto. 

L'amore può fare la penna e la pena a me simile. Sì, perché in un'epoca in cui si compongono Canzonieri così come si crea una gallery su Instagram, Gaspara recupera i modelli tradizionali dello Stilnovo, i canoni petrarcheschi, i riferimenti mitologici ma abbandona quell'ostinata ricerca di perfezione e si rivela come donna che ama con passione e struggimento. 

Questa relazione, che poco ha di platonico, viene descritta senza filtri e rappresenta la reale novità della poesia della Stampa. Contrariamente ai dettami della moda dell'epoca che concepiva l'amore in termini neoplatonici, i suoi versi sono densi di tensione emotiva.

Tuttavia la loro relazione procede fra alti e bassi, presenza e assenza, trascinandosi per circa tre anni. È possibile ricostruire la loro relazione dalle lettere e dai movimenti del Conte. Infatti nell'estate del 1549 Collaltino si allontanò da Gaspara per recarsi a Parigi e, subito dopo, al seguito del re di Francia Enrico II, partecipò alla battaglia per la riconquista della fortezza di Boulogne-sur-Mer che era sotto il dominio inglese. Ritorna a Venezia alla fine dell'autunno nello stesso anno per riallontanarsi subito dopo alla volta di Lendinara nel Polesine, da dove tornò alla fine dell'anno successivo. La situazione non cambia. Durante l'anno successivo Collaltino continua a essere distante fisicamente ed emotivamente da Gaspara: ora è nei suoi feudi, ora è a combattere in giro per l’Italia. Tanto che in un sonetto Rimandatemi il mio cor, empio tiranno, la poetessa senza mezzi termini rinfaccia all'amante le sue mancanze e il suo comportamento sleale; egli non solo ha straziato il suo cuore ma non è nemmeno in grado di rispettare le sue promesse. 

Gaspara infatti aspetta invano che il conte le faccia recapitare notizie sul suo stato e quest'angoscia la attanaglia, tanto da scrivere son passati otto giorni, a me un anno ch'io non ho vostre lettere od imbasciate.

La poetessa, pur percependo la precarietà di questo sentimento, lo aspetta. In un altro sonetto Io son da l’aspettar omai sì stanca scriverà io vinta nel dolore e dal disio, lui lieto nei suoi colli, smascherando così la crudeltà dell'amante. Eppure lo perdona, accetta, subisce consapevolmente perché crede di non poter rinunciare a questo amore, che sembra essere unilaterale o comunque basato più sulla vanità maschile che per il reale trasporto emotivo.

Il conte contravviene al patto d'amore di fedeltà e lealtà, a quella formula magica se non ama, riamerà elaborata diversi secoli prima dalla poetessa greca Saffo. Fu proprio Rilke a riscoprire il fascino dei versi di Gaspara Stampa e a paragonarla a una novella Saffo, proprio per la forza con cui si impone nel Romanticismo, diventando un'eroina moderna, che attraversa tutte le fasi dall'innamoramento all'abbandono, raccontandole senza filtri. 

La grande novità dei suoi versi sta proprio nella sincerità e nell'autentico trasporto con il quale vive la sua interiorità e la descrive a coloro che hanno intelletto d'amore. Una sincerità mista al coraggio di mettersi a nudo, di mostrare al mondo le proprie fragilità e quell'universo così intimo e talvolta incomprensibile che risiede nel cuore di una donna.

L'abbandono e la separazione da Collaltino non rappresenta però la fine per Gaspara. Sappiamo certamente che il conte, nel 1557, sposò Giulia Torelli, marchesa di Cassei, ma nemmeno la Stampa rimarrà sola a lungo.


Un foco eguale al primo foco io sento

e, se in sì poco spazio questo è tale,

che de l’altro non sia maggior, pavento.

Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale,

se volontariamente andar consento

d’un foco in altro, e d’un in altro male?

(CCXXII)


I versi sono chiari. Si parla di un fuoco, un altro fuoco che divampa nella sua anima. Amerà ancora e si legherà al patrizio veneto Bartolomeo Zen. 

A lui dedicherà gli ultimi 14 sonetti del suo Canzoniere. Le sue rime sono piene di orgoglio, quello di una donna che si definisce attraverso se stessa. Le sue parole la rappresentano la spontaneità con la quale ha vissuto ogni sentimento. Maria Bellonci, scrittrice e studiosa di Rinascimento, afferma che: l’unica possibile “verità vera” sta nel calarsi “nel valore poetico dei versi di questa giovane donna”, la sola che fu capace di squarciare “il brusio dei molti petrarchisti italiani” stretti tra il Bembo e l’Aretino. Le sue parole risuonano nel romanzo Il Fuoco di Gabriele D'Annunzio dove il protagonista Stelio Effrena riprende un verso della Stampa: “viver ardendo e non sentire il male” (CCVIII), metafora dei moti della sua anima, di un fuoco che, pur ardendo, non brucia.

Siamo ormai nel 1554. La fine di Gaspara è vicina. Una febbre altissima si impossessa di lei. Morirà quindici giorni dopo, appena trentunenne. 

Le malelingue dissero che si trattò di avvelenamento indotto o autoindotto causato dalla fine mai accettata dell'amore verso Collaltino. Ma si può anche supporre che queste malelingue non abbiano visto di buon occhio d'indipendenza e la forza di rinascita di Gaspara.

Circa due secoli dopo infatti il Canzoniere fu ripubblicato per iniziativa del conte Antonio Rambaldo di Collalto, discendente di Collaltino, forse più per narcisista convinzione che per una reale consapevolezza del valore di quelle rime. 

In ogni caso ha salvato dall'oblio parole che forse sarebbe il caso di rileggere.


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