Come Leopardi può salvarti la vita



Una delle frasi che mi più mi procura l'orticaria, come insegnante e come persona, è: «Leopardi era un pessimista».

Ora, è vero che due delle tre fasi del suo pensiero sono definite Pessimismo storico e cosmico e c'è un motivo alla base di questa scelta... Tuttavia è sempre auspicabile andare oltre le categorizzazioni, che sono certamente necessarie per poterci orientare fra gli studi, ma che non devono imprigionare il nostro pensiero.

Il solo fatto di ridurre questo poeta a un'etichetta, proprio non mi va giù. Lui che da sempre è stato un intellettuale libero, scevro da qualsiasi etichettatura, magistralmente a cavallo fra due secoli: l'Illuminismo, ormai alle sue spalle, con i suoi razionalismi e il sapere enciclopedico e il Romanticismo con le riflessioni patriottiche e il gusto per l'introspezione malinconica. Lui, sempre sull'orlo del precipizio, abile funambolo fra ragione e passione, realtà e illusione e mai cinico, nemmeno nichilista anzi amante della vita, fino in fondo, proprio lui che avrebbe avuto parecchio di cui lamentarsi. Combattivo e sempre pronto a sfidare i limiti e i confini, pronto a non accontentarsi mai.

Leopardi interviene nella disputa contro Madame de Staël, in favore di Pietro Giordani, circa la dignità della tradizione letteraria italiana, che non necessita quindi della traduzione dei classici o dei contemporanei europei per acquisire nuove idee. Le idee già ci sono. Tutte presenti negli autori su cui la nostra cultura si fonda. In tal senso si potrebbe interpretare la posizione di Leopardi come quella di un conservatore che egli però non fu mai, soprattutto dal punto di vista stilistico. Fu sempre pronto a rinnovare con estremo rispetto la tradizione a lui precedente, fornendo però sempre un nuovo modo di concepire la poesia e quindi la vita. 

Ecco perché, conscia nel luogo comune che aleggia su di lui, ho trovato coraggiosa la scelta di Alessandro D'Avenia di aggiungere un sottotitolo quale: Come Leopardi possa salvarti la vita. Eppure andava fatto quel passo che ci permettesse di dire siamo un po' tutti Leopardi, anzi... magari tutti fossimo come lui, coraggiosi, resilienti, sensibili, così lucidi sul futuro e consapevoli del nostro ruolo nel mondo.

Nonostante i problemi di salute che lo affliggevano, la difficoltà palese dell'essere nato in un borgo selvaggio, di essere cresciuto in un ambiente particolarmente conservatore e rigoroso, egli trova nei libri e nello studio le ali per volare oltre le mura delle casa paterna e oltre i confini di Recanati. Ha il coraggio di “fuggire”, di andare via, di assumersi la responsabilità dei propri errori. Andando via dal suo paese, infatti, si scontra con una realtà e con degli intellettuali che non erano come lui li aveva immaginati e idealizzati, eppure, nonostante la delusione, egli si rialza. Continua a lottare e a viaggiare, nutrendo sempre delle speranze in se stesso e negli esseri umani che incontrava. Tante furono le delusioni, soprattutto quelle d'amore, sentimento mai ricambiato nei suoi confronti e sostituito dalla stima che si aveva per lui come poeta. Ma null'altro di più.

Dunque questi sono tutti gli aspetti che emergono dalla lettura del saggio di D'Avenia; egli mette in discussione tutte le volte in cui abbiamo definito Leopardi un pessimista, tutte le volte in cui ci sentiamo distanti da questi autori del passato... 

Tanto sono tutti morti. Perché dobbiamo studiarli? 

Questa è una domanda che spesso mi viene rivolta. Morti fisicamente lo sono di certo, polvere alla polvere, cenere alla cenere, eppure continuano a parlarci e più li analizziamo e più li studiamo e ancora tanto hanno da dire. Credo che oggi si abbia estrema difficoltà a mettersi nei panni dell'altro. E non si sta parlando necessariamente dell'autore di due secoli fa, ma anche delle persone che fanno parte quotidianamente del nostro mondo. Forse è perché siamo spesso troppo impegnati e accalorati dai doveri, abbiamo fretta di dare giudizi e di valutare tutto e sempre, non c'è mai tempo per l'introspezione e per la bellezza, quella vera, profonda.

L'uomo superficiale: l'uomo che non sa mettere la sua mente nello stato in cui era quella dell'autore […] intende materialmente quello che legge, ma non vede […] il campo che l'autore scopriva, non conosce i rapporti e i legami delle cose ch'egli vedeva.

(Zibaldone, 22 novembre 1820).



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