La versione di Penelope
L'opera Heroides di Ovidio si apre con la lettera di Penelope al marito Odisseo, ormai lontano da vent'anni dalla sua petrosa Itaca. Il fatto che a Penelope e a tutte eroine ovidiane venga data una voce non è cosa da poco; è solo in apparenza un dato insignificante. Nel mondo romano, il canone femminile era rappresentato da Lavinia, figlia di re Latino e futura sposa di Enea che, interagendo con gli uomini, piange e arrossisce. Per questo, è facile capire perché le opere di Ovidio siano state ritenute scandalose in età augustea, in quanto le donne da lui narrate non solo parlano, ma accusano i loro uomini di averle abbandonate e tradite con futili motivazioni.
Questa riflessione
sull'importanza di avere una voce mi ha riportato alla mente una
scena della terza stagione della serie The handmaid's tale (Il
racconto dell'ancella), in cui la protagonista June scopre che ad
alcune ancelle è stata cucita, letteralmente, la bocca. La serie,
ispirata all'omonimo romanzo della Atwood, ci presenta un mondo
distopico in cui è impossibile percepire la voce femminile; infatti
è proprio il ruolo della voce che viene messo in risalto ne Il
canto di Penelope. Viene messo
evidenza un aspetto inedito della moglie di Odisseo, la quale viene
tradizionalmente rappresentata nell'atto silenzioso di tessere, di
notte, la tela per ingannare i Proci. Di Penelope non si parla
nemmeno in merito alla bellezza, perché passa in secondo piano
rispetto a Elena, ovviamente, ma anche rispetto alla sua virtù
principale: la pazienza. Come tutte le donne greche e romane (e non
solo), educate alla stoica sopportazione, anche la moglie di Odisseo,
nonostante il padre Icario la spinga ad abbandonare il letto vuoto e
la rimproveri per la sua interminabile attesa, resta domisenda,
come
direbbero i Latini, ovvero seduta staticamente dentro la sua casa.
C'è un'altra espressione usata da Ovidio
e messa in bocca alla donna:
Penelope
coniunx semper Ulixis ero (io,
Penelope, sarò sempre la sposa di Ulisse). Ella dunque si definisce
attraverso il suo uomo; esiste in quanto moglie di Odisseo. Per
questo aspetterà, fosse anche per cent'anni. Cent'anni sono tanti,
già venti sembrano un'eternità e Penelope, come Odisseo, non è più
una giovincella. I due coniugi non solo sono cambiati esteriormente,
ma la loro esperienza di vita li ha trasformati nello spirito, come
potrebbe aver trasformato i loro sentimenti. Nel frattempo infatti
Penelope è diventata reggente e fa le veci del marito: deve farsi
carico di Laerte, stanco e affaticato, di una suocera stizzosa, di un
figlio irrequieto e supponente e, infine, mettere a freno le
ambizioni dei Proci. Dunque l'unico sollievo arriva dalle ancelle,
fanciulle che la donna ha cresciuto come se fosse sue figlie; infatti
non
c'è solo la voce di Penelope, nel romanzo della Atwood. C'è anche
un altro canto non ascoltato, quello delle ancelle, vittime
sacrificali in un gioco più grande di loro. Il prezzo che Penelope
dovrà pagare per riavere il suo sposo è sempre più alto e ingiusto
e costa la vita a dodici giovani, la cui eco riecheggia e si aggiunge
alla voce solista della regina di Itaca.
È
proprio questa stessa voce solista che ci rivela, contrariamente a
quanto riportato dal testo omerico, di non essere stata esattamente
la moglie che tutti pensano; infatti, la versione della Atwood sembra
abbracciare la tradizione
dotta, la mitografia e la poesia ellenistica in cui ci viene
presentata una Penelope che, esattamente come Odisseo, ha avuto le
sue tresche durante gli anni di separazione. Anzi, se per il marito
abbiamo nomi e narrazioni delle sue gesta, per Penelope tutto rimane
all'immaginazione del lettore. Eppure, pur nella consapevolezza della
reciproca finzione, il matrimonio fra i due continua e noi non
possiamo che immaginarceli a dormire insieme nel letto
di ulivo inamovibile, piantato in terra saldo ed eterno.
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