L'arido vero di David Foster Wallace
Una cosa divertente che non farò mai più è un libro difficile da recensire, almeno per quanto mi
riguarda, poiché penso che l'approccio a questo autore debba essere
calmo e paziente. Bisogna leggerlo a morsi, senza strafare a meno che
non vogliate fare un'indigestione intellettuale.
Leggere
David Foster Wallace è come fare un viaggio ipnotico nella sua
testa, fra ossessioni e paranoie.
Le
prime pagine sono state destabilizzanti; un po' per la novità che
egli rappresenta nei miei orizzonti letterari, un po' per lo stile,
ricco di virtuosismi, e soprattutto per i contenuti. Non mi ero mai
imbattuta in un autore capace di svelare le sue nevrosi, senza però
al tempo stesso, renderle completamente manifeste.
Il mio
viaggio dentro Foster Wallace comincia con il suo di viaggio: sette
notti su una crociera extra-lusso nei Caraibi. Un sogno per chiunque,
ma non per David, al quale è stato commissionato un articolo
pubblicitario per la rivista Harper's.
Le vie
della scrittura sono infinite, e con David
Foster Wallace si aprono nuovi
orizzonti letterari: cambia le carte in tavola e mescola
gli stili. Il risultato è davvero sorprendente: abbiamo sia
il reportage obiettivo, meticoloso e caustico, volto
a trasmettere al lettore tutti i dettagli legati a
quell'esperienza, sia il saggio sociologico che
descrive "usi e costumi" dell'americano medio
contemporaneo, devoto al mito dell'opulenza e del divertimento a
tutti i costi.
Le
note, che solitamente contrappuntano in modo discreto il piè di
pagina, nel testo di Wallace si impongono; talvolta,
disorientano per la mole, ma rappresentano il punto di
riferimento per la piena comprensione del testo.
La narrazione è lineare, si parte da una prima visione d'insieme che verrà approfondita nelle pagine seguenti, seguendo un ordine ben definito: quello degli eventi a bordo della Zenith, da lui ribattezzata Nadir; dove tutte le attività ricreative e i servizi sulla crociera sono stati pensati appositamente per viziare e straviziare gli ospiti "nadiriti" e soddisfare, a pieno, i loro desideri ancor prima che si manifestino.
Dietro la sagace ironia e la "fiction" (da intendersi non come invenzione letteraria, ma piuttosto come la capacità di raccontare e romanzare, intrattenere con intelligenza), si cela un Wallace inquieto.
Questa “meganave”, come lui spesso la definisce, rappresenta una sorta di micro-mondo entro il quale ci si può sentire bene solo se ci si omologa agli altri. In questa raccapricciante utopia, dove tutto è perfetto e scintillante, la scoperta di un piccolo neo, di una scheggiatura nella vernice fa sentire improvvisamente più sollevati. Anche il tempo della vacanza viene meccanicamente programmato: agli ospiti non viene lasciata altra possibilità se non quella di sentirsi appagati nell'assoluta vacuità.
Non c'è spazio per quella noia, leopardianamente intesa come figlia della nullità e madre del nulla che però permette all'uomo di prendere coscienza dell'essenza della vita, di disprezzare le illusioni e accettare eroicamente la sua sofferenza. Questo stato di sospensione interiore viene evitato proprio perché innesca nell'uomo la riflessione, e di conseguenza, uno stato di paura e di angoscia nei confronti della conoscenza del proprio "io" e dell'arido vero. Acquisire e prendere coscienza di ciò che si sta vivendo può generare quel "male di vivere" che portò l'autore al suicidio.
Al di là dell'ironia, si percepisce la solitudine di un uomo. Del David Foster Wallace uomo, prima che dello scrittore.
Un malessere palpabile e reale, sebbene ancora assopito, che trova il giusto riparo nella scrittura: "un antidoto contro la solitudine".
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