Un viaggio chiamato Vita.
"Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere.
Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena.
Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? [...].
Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito.
Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. [...] All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio..."
(Marcel Proust, Dalla parte di Swann).
Se a Proust il sapore delle madeleines rievoca il ricordo della zia Leonia, a me l'odore della ciambella ricorda i primi esperimenti (disastrosi) in cucina.
Per quanto il paragone fra il ricordo della sottoscritta e quello del buon Proust possa sembrare ignobile (e lo è), questo stesso espediente trova spesso riscontro nella letteratura; anche in Banana Yoshimoto nel suo Un viaggio chiamato vita.
Probabilmente, il mio preferito fra quelli della scrittrice nipponica, in quanto non si tratta di un romanzo fatto e finito, ma al contrario di un flusso di coscienza a cui la Yoshimoto cerca di dare un ordine. Infatti, suddivide il testo in tre parti non nettamente separate, ma in simbiosi le une con le altre.
Per quanto il paragone fra il ricordo della sottoscritta e quello del buon Proust possa sembrare ignobile (e lo è), questo stesso espediente trova spesso riscontro nella letteratura; anche in Banana Yoshimoto nel suo Un viaggio chiamato vita.
Probabilmente, il mio preferito fra quelli della scrittrice nipponica, in quanto non si tratta di un romanzo fatto e finito, ma al contrario di un flusso di coscienza a cui la Yoshimoto cerca di dare un ordine. Infatti, suddivide il testo in tre parti non nettamente separate, ma in simbiosi le une con le altre.
Ciò che colpisce è il modo con il quale descrive i suoi viaggi: non si sofferma sui monumenti, né fa riferimenti di carattere turistico, ma racconta attraverso le sensazioni legate all'olfatto, al sapore e al ricordo personale legato ad un particolare paesaggio. Attraverso gli odori e i colori, si materializza un'immagine vivida nella nostra mente e basta il profumo del rosmarino per proiettarci da un appartamento a Tokyo, dove la scrittrice, a fatica, fa crescere la sua pianticella, ai grandi cespugli siciliani, che emanano una fragranza capace di inebriare e confondere la mente.
Nella seconda e nella terza parte dell'opera, la Yoshimoto smette di essere la scrittrice e parla di se stessa come Maho-Chan (suo vero nome). L'autrice di romanzi lascia spazio alla donna che ci permette di entrare nell'intimità dei suoi pensieri con delicatezza.
Questo "scoprirsi" è stata la chiave di "svolta", che mi ha permesso di capire meglio la personalità, le priorità e di conseguenza lo stile della Yoshimoto, che mi era sempre stato un p0' oscuro, probabilmente per un gap fra la cultura europea e quella orientale.
Questo "scoprirsi" è stata la chiave di "svolta", che mi ha permesso di capire meglio la personalità, le priorità e di conseguenza lo stile della Yoshimoto, che mi era sempre stato un p0' oscuro, probabilmente per un gap fra la cultura europea e quella orientale.
In questo romanzo-diario, tutto è uno spunto di riflessione: le persone che ha conosciuto, quelle che la circondano, gli animali e le piante delle quali si è presa cura rappresentano un punto di partenza del suo "viaggio".
La Yoshimoto descrive una Tokyo che spesso viene mostrata nella sua caoticità e anaffettività, intrappolata in schemi precostituiti, in pacchetti preimpostati.
Ciò che l'autrice scrive, a volte, può sembrare semplice, e talora, anche scontato; tuttavia, il suo invito a non lasciarsi ingabbiare dalle imposizione esterne, a non farsi intimidire da chi ci vuole diversi, non è poi così facile da mettere in pratica.
E' difficile voler bene e tenersi strette le persone a cui teniamo. Eppure, questa è la conclusione a cui arriva la scrittrice: ciò che conta davvero è l'amore che lasciamo, non importa verso chi o cosa... se una persona, un animale, una professione.
L'importante è voler bene.
E' difficile voler bene e tenersi strette le persone a cui teniamo. Eppure, questa è la conclusione a cui arriva la scrittrice: ciò che conta davvero è l'amore che lasciamo, non importa verso chi o cosa... se una persona, un animale, una professione.
L'importante è voler bene.
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