Roma: caput mundi (anche di corruzione)

 



Quando pensiamo al mondo classico ci viene subito in mente la Roma degli Imperatori e la Grecia dei grandi politici e dei filosofi.

In un certo senso si dice che la Storia venga fatta dai re e dalle loro scelte tangibili e segnate nel tempo attraverso editti, monumenti e battaglie. Eppure, negli ultimi decenni, l'archeologia ha portato a galla prepotentemente quelle tracce di quotidianità di un popolo che vive (e sopravvive) all'ombra degli Imperatori. 

Roma, per esempio, già nel VI sec. a.C. è un crogiuolo di umanità che si definisce socialmente anche in virtù di dove vive. Sparsi nel quartiere "caldo" della Suburra, insula malsana e pericolosa, emarginati, criminali ladri, fuggitivi, malfattori e prostitute trovano il loro regno, coadiuvati anche dal dedalo di strade e viuzze che rendeva impossibile incontrare lo stesso volto due volte. 

Per questa ragione questo quartiere era quello preferito dagli uomini per trovare piaceri a buon mercato; il poeta latino Persio racconterà che anche lui si recò alla Suburra quando compì 16 anni. 

Non è difficile capire perché le cronache dell'epoca riportano numerosi episodi di rapimento di prostitute da parte di giovani ubriachi nella Suburra. Le violenze non solo erano all'ordine del giorno e ma talvolta venivano anche giustificate dai genitori di questi giovani rampolli: un episodio degli Adelfi, famosa commedia di Terenzio, riporta un famoso fatto di cronaca: si racconta di un giovane che per rapire la donna che gli piaceva aveva sfondato la porta di casa di un lenone, picchiando fino alla morte lui e i suoi schiavi. 

Le ragioni sociali sottese alla prostituzione sono varie: tra tutte quella più stringente era la fame oppure l'avidità del lenone o della lena che allevava delle trovatelle per trarne guadagni in futuro. Sebbene la professione fosse sempre la stessa, esiste una profonda differenza fra le cortigiane e le prostitute. Le donne della Suburra, come si diceva prima, vivevano un contesto di totale e assoluto degrado; erano al limite della denutrizione, prede di febbre e malattie, i cui segni visibili ritroviamo spessissimo anche sui loro clienti. Dall'altra parte ci sono le cortigiane che, nel corso dei decenni, stabiliscono un codice di regole e di norme di comportamento che spaziano dall'abbigliamento al mondo di parlare e che vivono in un contesto grazie al quale riescono a condurre una vita nel contesto dignitosa.

La pratica della prostituzione era del tutto accettata nella cultura romana anche dal più intransigente conservatore Catone il Censore che tollerava questa pratica proprio perché consentiva agli uomini di osservare e rispettare la castità delle giovani donne e delle Matrone. La legalità di questa professione si evince anche dai riti perpetuati durante le feste dedicate alla dea Flora, dove le prostitute erano assolute prostitute in quanto sfilavano di notte davanti agli spettatori per garantirsi il favore della divinità. Ancora una volta nulla potè Catone il Censore che dovette accettare questo spettacolo a tutela della pudicizia delle Matrone, che mai avrebbero potuto spogliarsi in pubblico per propiziare la fecondità. 

Oltre alle Florarie, erano praticate a Roma anche le feste Afrodisie; una sorta di fiera delle cortigiane, celebrata fuori dalle mura della città dove, a seconda degli orari, era possibile effettuare delle transazioni; infatti le ragazze meno dotate di bellezza e freschezza si recavano al tempio di Porta Collina quando era ancora buio per ingannare i compratori e nascondere i propri difetti.
Invece le ragazze che non avevano nulla da nascondere arrivavano lì a mezzogiorno al fine di riservarsi una forte somma di denaro da parte di un uomo facoltoso che potesse tutelarle e tenerle a nolo per la loro bellezza un mese e magari anche un anno. 

Tutto ciò era perfettamente noto agli organi di giustizia che nulla potevano contro certe manifestazioni di sopruso non solo perché erano in netta minoranza numerica ma anche perché la violenza faceva da padrona anche presso le classi abbienti e tra chi avrebbe dovuto preservarla; in un certo senso un modo per tacitare le acque era proprio quello di indire per le folle banchetti, feste e giochi, oltre alla costruzione di luoghi come i lupanari e le osterie che tutelassero la sicurezza tra le vie e che permettessero di dar sfogo agli istinti più animaleschi.

In sostanza a Roma non si poteva essere al sicuro in nessun luogo.
Quello che per i Greci era equilibrato edonismo, per i Romani rappresentava l'eccesso di lascivia e dei peccati di gola che culminavano nel mangiare, bere e vomitare: l'immagine tradizionale dell'insaziabilità di un popolo che conquistò il mondo.

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