Saghe familiari. "Mille anni che sto qui" di Mariolina Venezia.



Posti che vai, Libri che trovi.


I resti dell'uomo di Cro Magnon non si erano ancora putrefatti nelle tombe semicircolari sulla Murgia, in quella parte della Basilicata che si trova circa cento chilometri all'interno delle coste pugliesi, che i primi insediamenti umani si erano già stabilizzati nelle grotte a picco sulla Gravina. Qualche secolo dopo i Sassi di Matera erano la grande capitale troglodita del mondo contadino. Nelle sue case scavate nel calcare si erano avvicendati popoli italioti e derelitti di tutte le razze: profughi albanesi, stiliti greci, eretici, comunità giudaiche in fuga, che una volta annidati in quello che sarebbe stato definito un dente cariato, avevano prontamente perso il ricordo delle loro terre e anche dei motivi che li avevano spinti ad abbandonarle, amalgamati da un unico denominatore comune: la fame. Matera gestiva la fame proveniente dalle campagne circostanti, era il cuore di un circolo vizioso di mezzadri spossati che facevano avanti e indietro dalle campagne ad alimentare un'economia entropica. Tutt'attorno i paesi di Grassano, Miglionico, Ferrandina, Montescaglioso, e Grottole, se ne stavano semplicemente appollaiati sulle colline franose, privi di storia, a rodersi di fame e basta. [Mille anni che sto qui, Mariolina Venezia].


Il bianco è la somma di tutti i colori della luce. Il nero è assenza di luce, quindi assenza di colore. Il sapore di un'antica saga familiare assume i toni scuri e polverosi del carbone e quelli candidi delle mura domestiche dove si articola la vita. Il nero è il colore del buio all'interno delle case-grotte, il bianco quello del sole che nei campi brucia il viso dei contadini.
Ho scoperto il libro di Mariolina Venezia per caso. Cercavo qualcosa che traducesse in parole ciò che avevo visto, un po' di tempo fa, in una galleria fotografica a Matera, nel Palazzo Lanfranchi, sede del Museo Nazionale di Arte Medievale e Moderna della Basilicata. Questi scatti in bianco e nero di Mario Carbone ritraggono la vita contadina fra il tufo e la roccia del Sasso Caveoso e Barisano agli inizi del Novecento e, furono riprodotti sulla tela da Carlo Levi, scrittore del celebre Cristo si è fermato ad Eboli, e pittore (è suo un dipinto Il padre a tavola presente nella mostra temporanea nel Foyer del teatro Petruzzelli a Bari). L'artista, parlando dei Sassi di Matera, li paragonò a coni rovesciati […] che hanno la forma con cui a scuola immaginavo l'inferno di Dante... La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone... Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto... Le porte erano aperte per il caldo, Io guardavo passando: e vedevo l'interno delle grottesche non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall'alto, attraverso botole e scalette.

MarioCarbone-foto-Matera
MarioCarbone-biancoEnero-Matera
Il fotografo Mario Carbone inquadra, fra luci e ombre, visi reali di bambini, già uomini, che raccontano un'esistenza fatta di fatica, povertà e asperità. Immagini che ci proiettano in una storia appartenente quasi ad un altro mondo, dove l'unica legge era quella del più forte e l'unica ricchezza veniva dalle mani sporche di terra. Carlo Levi riproduce a colori le espressioni cupe dei loro volti, le sfumature vibranti dei tessuti che li avvolgono, l'ipnosi dei brulli paesaggi di lontano. La forza di queste immagini l'ho ritrovata proprio nel romanzo Mille anni che sto qui. La scrittrice lucana Mariolina Venezia intesse un' articolata saga familiare che ho trovato intrigante, avvolgente e con dei personaggi ben caratterizzati ed empatici nella prima parte, salvo poi perdersi in un vortice disordinato di nomi, eventi e circostanze che ne hanno infranto la magia. La grossa potenzialità di questo romanzo sta nella voce, nelle cadenze e nello slang della Basilicata, terra sorella della mia Puglia, nel modo di descrivere, crudo e iper-realista, il ruolo delle donne e degli uomini agli inizi del Novecento, sorridere per le antiche credenze ed “inorridire” dinanzi ai riti della superstizione. Una voce narrante ci presenta i personaggi, anticipando il loro destino e la destinataria ultima del racconto: Gioia, la quale sembra voler rifiutare e ignorare la sua storia.

Don Francesco Falcone è il capostipite, uomo duro ed autoritario, che vede nella nascita dell'unico figlio maschio la finalità ultima e la diretta prosecuzione del suo operato. Tuttavia, è la componente femminile a costituire il vero nodo di questo romanzo. Donne estremamente diverse fra loro, portatrice sane di odio e amore, vita e morte, che si alternano negli scatti generazionali per circa cento anni. Però è proprio la vastità dell'arco temporale a danneggiare il romanzo; infatti, mentre nella prima parte del romanzo vengono descritti gli odori e i drammi dei componenti della famiglia di prima e seconda generazione, nella seconda parte ci sono dei personaggi solo accennati, ai quali proprio non riesci ad affezionarti a causa della velocità con la quale appaiono e scompaiono nel discorso. Gli intrecci, più o meno ampi, creano degli spot. Sono come finestre socchiuse ed appannante su un passato, nemmeno poi molto lontano, nel quale mi sarebbe piaciuto immergermi fino alla fine del romanzo.



Pps. Ultimo consiglio: Palazzo Lanfranchi custodisce il repertorio fotografico di Mario Carbone (due esempi nel corpo dell'articolo) e il dipinto murale di Carlo Levi (qui in basso) al piano inferiore. 


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In quello superiore, invece, si snoda in un interessante percorso fra arte sacra, dipinti della scuola napoletana del Seicento-Settecento, e i soggetti femminili nelle ovattate scene domestiche di Angelo Brando, pittore lucano.

AngeloBrando-dipinti-Matera
Angelo Brando



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